PARTE II - CAPITOLO III
ZOLFO
Lo zolfo è un minerale che nella nostra regione ha indubbiamente una grande diffusione e che è stato, e in parte lo è ancora, oggetto di attiva ricerca e di sfruttamento industriale vero e proprio. Già in passato furono aperte alcune miniere, che rimaste attive talora per molti anni, furono poi chiuse o per impoverimento della strato o per sopravvenute difficoltà finanziarie o tecniche. Oggi data la crisi che attraversa la nostra industria solfifera per il progressivo esaurimento dei giacimenti più ricchi, zone, come la nostra in esame, possono forse avere interesse per il ritrovamento e la messa in valore di nuovi giacimenti. Credo perciò utile soffermarmi con un certo dettaglio sulla questione.
1. I caratteri e i problemi del Messiniano
Per affrontare il problema degli zolfi nella nostra regione dobbiamo prendere le mosse dall'esame dei terreni messiniani, di cui si è fatta un'esposizione sintetica a pag.32. Prima però di scendere a dettagli stratigrafici conviene accennare ad alcune questioni generali.
Anzitutto liberiamo il campo dal problema della nomenclatura. Col termine di Messiniano, seguendo l'uso ormai invalso nel nostro Paese, indico quel complesso di terreni (marne, molasse, marne bituminose, gessi calcari, tripoli) compresi fra il Tortoniano e il Pliocene inferiore marini e sicuramente documentabili con le macrofaune, ma più spesso con le microfaune (1). Questa definizione non è tanto banale come potrebbe sembrare a prima vista, stando la grande confusione che si fa molto spesso (particolarmente nelle carte geologiche ufficiali dell'Appennino) fra i tre termini stratigrafici citati.
In passato, e anche recentemente, molti AA. hanno preferito però per i nostri terreni altre denominazioni (Sarmaziano, Pontico, Miopliocene, Miocene superiore, strati a Congerie, formazione gessoso-solfifera, ecc.); riassumerò quindi rapidamente alcuni dei motivi essenziali che mi fanno prescegliere il termine Messiniano.
Sarmaziano e Pontico, istituiti come è ben noto per depositi salmastri dell'Europa orientale, non sono correlabili con precisione e sicurezza con i terreni del Mediterraneo occidentale, salvo casi del tutto eccezionali (alcune località toscane ad esempio); cosa del resto comprensibile, se si pensa che i due domini marini (orientale e occidentale) dell'Europa meridionale erano allora indipendenti. Ma se quanto mai difficile e incerto è il riconoscimento da noi di questi due piani, pressoché impossibile è il separarli con precisione fa loro. Non parliamo poi che nelle regioni orientali il Sarmaziano ora è considerato sovrastante, ora coevo del Tortoniano e che il Pontico (da alcuni AA. orientali considerato pliocenico) serve per indicare ora depositi salmastri, ora accumuli continentali (= Pannoniano); penso quindi che queste due denominazioni non possono essere applicate ai nostri terreni neppure col significato di facies (1).
Il termine Mio-Pliocene può essere utile, ma indica ben poco; assai meglio sarebbe semmai parlare di Miocene superiore; però in tal caso interviene la questione del limite fra Miocene e Pliocene, questione che non è così semplice come potrebbe parere (221). Gli "strati a Congerie" sono stati considerati coevi della formazione gessoso-solfifera o talora posteriori, ma per lo più non si è dato a questi due termini un significato molto preciso. D'altronde anche nei bacini dell'Europa orientale agli strati a Congerie si dà piuttosto il valore di facies (pontici sono ad esempio nel bacino di Vienna, sarmaziani e pontici nel bacino pannonico). La denominazione di "formazione gessoso-solfifera" ha invece in molte parti del nostro Paese, e nella nostra regione in particolare, un preciso significato litologico e pratico, perciò la conserverò nella esposizione che segue. Intendo però la formazione gessoso-solfifera in senso molto stretto, comprendendo in essa solo quel complesso stratigrafico rappresentato da sicure evaporiti (calcare solfifero e gessi) e dalle rocce marnoso-argillose interposte.
Il Messiniano, così come lo si è definito all'inizio di questo paragrafo, ha una netta individualità stratigrafica, quale ben raramente si presenta per altri piani geologici. Infatti anche nelle serie continue come sono quelle metaurensi, la sua separazione rispetto al Tortoniano e al Pliocene inferiore è quanto mai agevole mediante le microfaune a Foraminiferi, che nel Messiniano, come ho già accennato a pag. 33 o sono del tutto assenti o ridotte a sole rarissime e piccole Globigerine (1). Il profondo cambiamento ambientale, che ha pressoché inibito la vita ai Foraminiferi e quasi tutti gli altri organismi tipicamente marini specie se bentonici (2), si inizia pochi metri al di sotto dei tripoli e cessa qualche metro o decina di metri sopra il complesso a colombacci (livello 6 di pag. 32) (3), ossia è accompagnato molto da vicino da notevoli cambiamenti litologici. Tre sono a questo riguardo le formazioni tipiche del Messiniano: i tripoli, la formazione gessoso-solfifera e i livelli a colombacci. Questi complessi che si succedono nell'ordine dal basso all'alto possono essere a diretto contatto fra loro o assai più spesso separati da spessori variabili di marne, marne bituminose o molasse (4).
A questo punto è lecito chiedersi quale è stato l'ambiente di sedimentazione del Messiniano. Poiché il problema ha anche un indiretto interesse pratico, vediamo quali deduzioni è possibile ricavare dai vari elementi paleontologici e litologici a disposizione.
(2) È superfluo ricordare che il Messiniano ha fornito anche altri resti fossili oltre gli sporadici Foraminiferi e cioè: Diatomee, Radiolari, Ostracoidi, Pesci e le ben note faune a Congerie.
(3) Su questo complesso stratigrafico e sulla sua enorme e continua distribuzione nella regione romagnolo-marchigiana mi sono già intrattenuto in una mia recente nota (219).
Chiamai allora questi calcari cagnini superiori; ma ad evitare confusioni coi tipici cagnini, che sono calcari marnosi talora selciferi della base della formazione gessoso-solfifera, li indicherò d'ora innanzi col termine di colombacci, prendendo il termine dal locale linguaggio dei minatori. Poso qui anche aggiungere che ho ritrovato recentemente il complesso a colombacci, sempre coi noti caratteri e sempre nella stessa posizione stratigrafica (all'apice del Messiniano), oltre che in Romagna e nelle Marche, anche in Toscana, negli Abruzzi e in Calabria.
(4) Naturalmente è questa una schematizzazione; vedremo meglio più avanti le numerose variazioni locali di spessore e composizione delle serie nella nostra regione. Un tale schema vale anche per molte altre parti d'Italia, ma non è certo possibile scendere qui a dettagli.
Anzitutto possiamo osservare che nella regione marchigiana durante il Messiniano dovettero essere assai diffuse particolari condizioni del fondo marino per l'instaurarsi di ambienti riducenti con probabile sviluppo di acido solfidrico paragonabili a quello dell'attuale Mar Nero. Essi ci sono dimostrati dalla scomparsa della fauna bentonica, dai frequenti livelli di marne bituminose e dalla frequenza di pirite e marcasite finemente suddivisa o in piccoli noduletti entro le marne. In tali condizioni solo la vita planctonica e talora quella nectonica (v. le ittiofaune di Mondaino, Sinigaglia e di altre località) erano possibili. Però l'ambiente dovette essere essenzialmente influenzato da un notevole aumento di salsedine come testimoniano in modo chiaro le varie rocce di deposito chimico (calcari e gessi) (1).
È curioso che quasi tutti gli AA., i quali si sono occupati dei terreni messiniani italiani, li abbiano definiti come depositi salmastri o d'acqua dolce (2). Il fatto è forse imputabile ai ritrovamenti di Cardium, Congeria, Melanopsis, Hydrobia, ecc., cioè delle faune dette appunto a Congerie, analoghe a quelle dei laghi-mari coevi dell'Europa orientale (3). Può darsi che queste faune indichino veramente delle pause locali salmastre nell'ambiente fondamentalmente soprasalato dei nostri mari messiniani; ma forse non è la regola. A questo riguardo si può innanzitutto notare che in via generale vi è spesso concordanza fra le faune di ambiente salmastro e quelle di ambiente sovrasalato; infatti le specie ad habitat salmastro sono eurialine e capaci di sopportare notevoli sbalzi di salsedine; è quindi verosimile che esse possano adattarsi ad acque sovrasalate.
Nelle faune attuali troviamo varie prove di questa affermazione: ma qui è sufficiente ricordare il fatto che il Cardium edule, generalmente creduto solo salmastro, oggi vive anche nel golfo di Kara Bugas (Mar Caspio), dove la
salinità ammonta al 164% (4). È anche molto interessante il ritrovamento di Melanopsis e Cardium addirittura entro i gessi romagnoli (174).
(2) Alcuni hanno adottato il termine di "sedimento paralico", che però secondo la definizione originale di TERCIER (1940) indica sempre la medesima cosa: cioè alternanza di depositi terrigeni marini, salmastri e continentali al margine di aree emerse.
(3) Forse anche i tripoli, richiamandosi alle diatomeiti d'acqua dolce può darsi siano stati interpretati come depositi d'acqua salmastra.
(4) Non si dimentichi che i vari nostri Cardium messiniani sono considerati mutazioni del comune Cardium edule. I Cardium poi costituiscono spesso la gran massa delle cosiddette faune a Congerie.
Né si dimentichi infine che faune e Cardium, ittiofaune e talora anche faune a Foraminiferi si rinvengono entro sottili strati marnosi intercalati ai gessi, in condizioni tali che non è facile ammettere profondi e brevi mutamenti di salsedine.
Quindi, pur non escludendo che in particolari casi le faune cosiddette a Congerie indichino realmente degli ambienti salmastri determinati da locali e momentanee diluizioni per apporto di acque dolci, penserei che spesso possano rappresentare degli adattamenti a un ambiente soprasalato (1). Ad ogni modo in via generale mi pare sia chiaro che nella stragrande maggioranza dei casi gli ambienti di deposito del nostro Messiniano furono iperalini.
Veniamo ora a parlare delle varie rocce che meglio caratterizzano le serie messiniane, cioè dei gessi e dei calcari. È una questione pacifica, da nessuno messa in dubbio, che i gessi, il salgemma e i rari sali potassici e magnesiaci (questi ultimi tre però non sono presenti nella nostra regione) siano di deposito chimico. Altrettanto credo si possa dire per i cagnini e i colombacci, che sono calcari, i primi spesso un po' selciferi e i secondi un po' marnosi e spesso fittamente stratificati e fissili, nei quali è evidente l'origine evaporitica; d'altra parte mancano in essi avanzi fossili e caratteri tali da far supporre un deposito organogeno (2). Più complessa è l'interpretazione della genesi del calcare solfifero che da parte di molti AA. si considera derivato da riduzione del gesso. Più avanti cercheremo di intrattenerci sulla dibattuta questione (pag.113); mi pare però si possa dire fin d'ora che la costante presenza di questo calcare alla base della serie gessifera della nostra regione e la frequente scarsezza o assenza in esso di solfo, facciano propendere per un deposito chimico diretto
(2) A riprova dell'origine chimica dei colombacci è anche importante tener presente: la grande esiguità dei singoli straterelli calcarei (al massimo 12-15 cm, ma assai più spesso pochissimi cm) e la loro separazione con analoghi spessori di argilla, l'enorme continuità orizzontale dei vari orizzonti calcarei, la loro indipendenza dalla facies litologica dei terreni adiacenti (possono trovarsi immersi in argille marnose o in molasse indifferentemente) e quindi la loro costanza malgrado le variazioni di facies dei terreni vicini, la loro costante posizione stratigrafica, ecc.
anche di questo calcare. Ad ogni modo, comunque lo si voglia considerare, che si sia cioè depositato come calcare o come gesso, non si può negare in ogni caso la sua origine evaporitica.
Data la successione stratigrafica di queste rocce si può dire che la serie messiniana marchigiana rappresenta un tipico ciclo evaporitico. Infatti si è avuto all'inizio il deposito di calcari leggermente dolomitici e spesso selciferi (cagnini), ad essi son seguiti il deposito di calcare (talora solfifero) e di calcare gessifero, e quindi gli accumuli di gesso in banchi cospicui (S. Ippolito, Urbania) o in numerosi strati di diverso spessore; la serie infine si è chiusa con nuovi depositi di calcari tipicamente evaporitici (colombacci). Cioè si è verificato dapprima un progressivo aumento di concentrazione salina, che nella nostra regione non andò oltre il deposito del gesso, e quindi una diluizione delle acque dell'antico mare finche si venne infine di nuovo alla salinità normale. Naturalmente sia gli aumenti che le diminuzioni di salsedine non furono nè progressivi nè graduali; si ebbero infatti frequenti arresti nel deposito chimico con l'intervento della normale sedimentazione terrigena, riprese di deposito dei sali, diluizioni e locali aumenti di salsedine, ecc.; nel grande unico ciclo evaporitico si inserirono così cicli minori locali. In altre regioni si ebbe talora anche l'accumulo di salgemma (Toscana, Calabria e Sicilia) o addirittura di sali potassici (Sicilia).
Si devono tener presenti anche i numerosi passaggi laterali di spessore e di composizione di tutte queste varie rocce. Così i grossi banchi gessiferi possono smembrarsi lateralmente in numerosi altri minori, i calcari di base possono passare orizzontalmente a gesso, gli orizzonti di colombacci possono variare di numero e di potenza, può cambiare notevolmente lo spessore dei terreni marnosi o molassici interposti, ecc. La maggior parte di tutti questi fatti devono essere il relazione con numerosi agenti paleogeografici:
diversi apporti terrigeni e di acque dolci nel mare soprasalato, vario giuoco delle correnti a diversa densità, diverso riscaldamento e profondità delle acque, vario andamento dei bacini marini, ecc. (1).
Occorre ora accennare anche al problema dei tripoli. Come è noto essi accompagnano alla base, quasi costantemente, la formazione gessoso-solfifera non solo nella nostra regione, ma anche in quasi tutto il resto della penisola e della Sicilia, tanto che se non sono esclusivi del Messiniano ne costituiscono certamente in orizzonte molto caratteristico. Dagli studi condotti sulle ittiofaune di Mondaino (197), Sinigaglia (204) e di molte altre località italiane (Gabbro, Licata, Rocalmuto, ecc.) e dalle notizie pubblicate finora sulle Diatomee (69, 174, 201), è noto che i tripoli rappresentano depositi di mare aperto e abbastanza profondo (salvo quelli del Gabbro) pur con variazioni batimetriche a seconda dei luoghi (2). Però ci si può chiedere quale sia stata la causa di questo deposito così peculiare e come mai queste caratteristiche marne fogliettate abbiano la costante e quasi generale diffusione immediatamente sotto la formazione gessoso-solfifera.
Si può notare che sia la fissilità, sia tutti gli altri caratteri dei tripoli sono dovuti alla grande abbondanza di Diatomee; nelle nostre rocce infatti la silice organogena può anche superare largamente il 40%. Ora penso che questo straordinario sviluppo del fitoplacton sia stato favorito, se non determinato, da una notevole concentrazione di SiO2 nell'antico mare; tale concentrazione sarebbe stata provocata essenzialmente dal progressivo aumento generale della salsedine al disopra del valore normale (3) e forse da una probabile diminuzione del Ph (4).
(2) Tripoli o meglio marne tripolacee si trovano raramente (ad es. dintorni di Isola di Fano) anche sopra ai gessi e talora intercalate. In quest'ultima giacitura D'ERASMO ha trovato a Sinigaglia anche pesci dulcicoli o salmastri; per essi vale quanto si è detto per le faune a Congerie, cioè o si tratta di specie adattate all'ambiente sovrasalato o uccise dall'eccesso di salsedine.
(3) Come è noto il SiO2 è uno dei primi componenti a raggiungere la saturazione nell'evaporazione dell'acqua di mare; basterebbe a tal riguardo ricordare il contenuto in silice dei cagnini.
(4) Diminuendo il ph diminuisce la solubilità dell'SiO2 quindi vien prima raggiunta la saturazione. Potrebbe darsi che l'ambiente riducente con sviluppo di H2 S , tanto diffuso nei mari messiniani, come si è detto più sopra, abbia potuto determinare questa diminuzione.
Perciò in definitiva l'aumentata salsedine sarebbe stata la causa indiretta della formazione dei tripoli; la loro posizione geologica verrebbe spiegata dal fatto che durante il deposito di queste rocce la salinità del mare messiniano, pur essendo superiore al valore normale tanto da aver inibito la vita alla maggior parte degli organismi, non aveva raggiunto ancora valori cospicui; quando questi si verificarono cominciò il deposito del calcare siliceo (cagnino) e disparvero anche le Diatomee essendo l'ambiente divenuto impossibile alla loro vita (1). Per questa interpretazione dei tripoli si possono portare alcune prove. Ad esempio a Mondaino il cagnino si trova intercalato agli strati tripolacei alti; ciò dimostra che alla fine del deposito tripolaceo la salinità del mare era già elevata. Ma più interessante è quanto ho avuto occasione di osservare recentemente nel Crotonese meridionale (Calabria) dove vi sono tripoli del Pliocene, del tutto identici ai nostri messiniani, che dimostrano chiaramente di essersi depositati in acque soprasalate (2).
Giunti a questo punto ci resta ancora da vedere quali avvenimenti geologici possano aver determinato l'ambiente tipicamente iperalino del Messiniano. Come è noto, la quasi totalità degli AA., riprendendo la nota teoria della "barra" di OCHSENIUS", suppone che le nostre serie evaporitiche si siano sedimentate in lagune soprasalate con limitata o saltuaria comunicazione col mare aperto, analogamente a quanto avviene oggi per il golfo di Kara Bugas (Mar Caspio), lago di Larcana (Cipro), laghi amari (Suez), ecc.
(2) Nel Pliocene medio e superiore del Crotonese sono intercalati numerosissimi orizzonti di tripoli (almeno una trentina di livelli per il solo Pliocene superiore) con spessori variabili da 40-50 cm ad 8-9 m ognuno. Questi tripoli sono uguali a quelli messiniani; contengono una grande quantità di Diatomee, un'abbondante microfauna costituita da sole Globigerine e Orbuline e qualche pesce (a causa di questi ultimi furono un tempo ritenuti erroneamente messiniani). Associati ai tripoli sono numerosissimi letti sottili di gesso e talora calcari di deposito chimico in tutto identici ai nostri colombacci. I fossili e le rocce associate indicano quindi anche per questi tripoli calabresi un ambiente di deposito soprasalato. Ma vi è anche un'altra osservazione interessante da fare. Fra i vari orizzonti tripolacei si intercalano argille azzurre del tipo normale pliocenico; esse contengono microfaune molto ricche e varie (talora anche malacofauna) con caratteri costanti e di ambiente marino normale; da esse è possibile dedurre una profondità di deposito attorno ai 500 m. Evidentemente anche i tripoli interposti dovettero sedimentarsi a queste profondità essendo assolutamente impossibile ammettere tante numerose e uguali oscillazioni dell'antico fondo marino. Possiamo quindi pervenire a queste conclusioni; i tripoli, (siano messiniani o pliocenici)si formarono in un mare con salsedine superiore a quella normale a profondità diversissime e dove gli apporti terrigeni grossolani erano molto ridotti.
A tal modo di vedere si possono opporre numerose obbiezioni. Anzitutto, ammettendo una serie ininterrotta di lagune lungo le coste dell'antico mare, mal si spiegano i costanti caratteri di insieme del Messiniano del nostro Paese (1): sempre soprasalato, sempre con la stessa fondamentale successione di evaporiti, sempre con gli stessi caratteri faunistici, ecc., che si mantengono uguali dal Piemonte e dalla pianura padana fino alla Sicilia. Neppure supponendo bacini lagunari molto estesi si riescono a superare varie difficoltà (2). Infatti durante il Miocene superiore (3) i bacini chiusi e semichiusi avrebbero dovuto cingere tutte le masse emerse nel nostro Paese e avere le loro barre a decine se non a centinaia di km ( si pensi alla Pianura Padana ad es.) da queste medesime aree emerse. Ma per ammettere una morfologia così accidentata è necessario pensare che i fenomeni orogenetici abbiano prodotto vaste ed irregolarissime emersioni quali non si erano avute nei periodi geologici precedenti o seguenti. Indubbiamente durante il Messiniano si ebbero nel nostro paese fasi diastrofiche importanti (fase attica o insubrica tardiva); ma, a parte il fatto che in molte regioni d'Italia dove pure il Messiniano è assai sviluppato o non si ebbero movimenti o questi furono molto scarsi, resta per lo meno strano che le altre fasi orogenetiche precedenti, spesso molto più intense, non abbiano mai determinato un così enorme sviluppo di lagune.
Ma vi sono anche altri argomenti assai importanti che fanno molto dubitare di questa ipotesi diciamo così "lagunare". Infatti in tutto il Mediterraneo occidentale, il Miocene superiore allorché si presenta marino è sempre soprasalato e con depositi evaporitici. A tal riguardo son tipiche le serie gessoso-solfifere della regione di Costantina; caratteristica la successione marne bituminose, tripoli e gessi dell'Algeria occidentale (Orano, Chelif, ecc.) dove si riscontrano associazioni e successioni faunistiche identiche alle nostre; si potrebbe ricordare le serie gessoso-solfifere della Murcia e di altre regioni spagnole e così via. Un esame dettagliato di tutte queste serie ci porterebbe assai lontano, qui mi basta dire che in tutto il Mediterraneo occidentale non
(2) Per esempio ho fatto notare più sopra la fondamentale unità del mare messiniano romagnolo-marchigiano, altri hanno pensato a un'unica grande laguna siciliana, si potrebbe pensare a una grande laguna padana, e così via.
(3) Per facilità di espressione uso il termine di Miocene sup. ma non è esatto; come ho detto non si può verificare il Messiniano con tutto il Miocene sup.
sono noti terreni sopramiocenici di ambiente marino normale. Come è noto un tempo si credette di averli individuati nel cosiddetto Saheliano, ma ricerche recenti hanno dimostrato che i presunti terreni saheliani appartengono in realtà al Tortoniano o al Pliocene (LAFITTE 1949).
In tali condizioni verrebbe fatto di pensare che durante il Miocene superiore tutto il Mediterraneo occidentale abbia costituito un enorme lago-mare sovrasalato; esso sarebbe rimasto isolato dall'Oceano Atlantico o per meglio dire avrebbe avuto con l'Oceano comunicazioni insufficienti a mantenergli la salsedine normale (1). Oltre a questo semi-isolamento altri fattori avrebbero contribuito all'innalzamento della salinità e in primo luogo gli scarsi afflussi di acque dolci continentali. Infatti quasi tutti i maggiori corsi d'acqua sfociavano nei bacini dell'Europa orientale, i quali come è noto, separati dal Mediterraneo sul finire del Tortoniano, venivano appunto acquistando carattere salmastro. Altro elemento favorevole all'evaporazione fu il clima caldo, forse subtropicale, ma certamente a temperatura più elevata dell'attuale come dimostrano le flore messiniane.
Si potrebbero citare anche altri fatti a sostegno dell'ipotesi dell'isolamento del Mediterraneo durante il Miocene superiore; così ad esempio il carattere indopacifico delle faune marine mioceniche è quello più spiccatamente atlantico delle faune plioceniche. Ma non posso dilungarmi ulteriormente su questo interessante argomento.
Devo però aggiungere che non penso al Mediterraneo messiniano semplicemente come ad un enorme lago soprasalato in cui si andassero uniformemente sedimentando le serie evaporitiche. Infatti tali depositi dovevano essere più facili ed abbondanti presso le coste o sui bassifondi per la maggiore evaporazione, altrove invece molto più ridotti o addirittura mancanti. La sedimentazione poteva essere diversissima anche in aree vicine sia per il vario e intenso moto delle correnti a diversa concentrazione salina, sia per la diversa acclività dei fondi costieri, sia per i vari apporti terrigeni; presso la foce dei fiumi potevano formarsi ambienti salmastri o addirittura a salinità quasi normale, tanto da consentire la sopravvivenza di forme marine
tipicamente mioceniche (1). Forse anche si formarono lagune o veri e propri bacini chiusi con deposito di salgemma e talora di sali potassici e magnesiaci; ma la frequenza di tali ambienti non doveva essere molto diversa da quella attuale o di altri periodi geologici passati.
Da tutto quanto ho esposto, mi pare si possa concludere che il carattere essenziale del nostro Messiniano è stato il regime iperalino che ha determinato durante questa età quei tipi litologici così caratteristici e condizionato le varie forme di vita. Molti sono ancora i problemi aperti, ma penso che da una migliore ricostruzione dei vari ambienti locali messiniani possano venirci preziosi elementi di importanza pratica non indifferente e forse qualche lume su quel problema, spesso affrontato in maniera tanto inadeguata, quale è la genesi dello zolfo (2).